C'erano tutte le prerogative per spaventarsi,
quel pomeriggio del 15 marzo: le fonti ufficiali parlavano di moniti da parte dei
rossi apparsi il giorno prima in piazza Savonarola, ovvero il punto da cui
sarebbe partito il corteo coordinato da Casaggì Firenze. Inneggiavano a Tito,
ex dittatore jugoslavo.
A maggior ragione, la pianificazione del perimetro
d'azione dei due cortei era stata calcolata nel dettaglio: se da piazza
Savonarola le camicette nere si erano prefisse di raggiungere il largo Martiri
delle Foibe passando da viale don Minzoni,
gli Antifascisti avrebbero ricordato alla città che quella delle foibe è la
scusa che Vichi de Casa Pound rifila a chiunque pur di risultare
credibile, ritrovandosi in piazza S. Marco. Oltre agli scontri, il terrore più grande dei
fiorentini (e dell'hinterland che di sabato va a consumare a sbafo nella
metropoli) era il blocco delle strade: in effetti l'ATAF aveva deviato diverse
linee e alcuni dei viali erano totalmente off-limits. Quel pomeriggio quindi, verso le quattro, almeno tre
squadre gareggiavano (e neanche correndo sulla stessa pista) sperando di
arrivare primi; chi da una parte, chi dall'altra, in maniera del tutto
solipsistica spingeva per ritrovarsi a ridosso del viale Statuto: i Neri al largo
Martiri; i Rossi al piazzale d'ingresso della Fortezza da Basso, e tutto il
resto (con una buona dose di totalmente ignari a proposito di cosa stava
accadendo in città) al lago dei Cigni, in occasione del mercatino solito del
terzo fine settimana del mese, "Firenze Anti-quaria".
Dalla parte dei Neri, le armi a disposizione (di
vecchio stampo, ma sempre in grado di riscuotere un certo successo) erano
fumogeni tricolore, fascette attorno ai bicipiti tricolore, bandiere tricolore
– insomma la monotonia che caratterizza il discorso "Foibe", che si
ritrova anche nei particolari estetici – nonché l'Onorevole Giorgia Meloni,
alla quale è stata in seguito riconosciuta medaglia al valore per aver chiesto
gentilmente alle camiciette di non intonare ben note canzoni, troppo
anticostituzionali. Parlando di numeri, i cortei ammontavano
sommariamente alla stessa cifra: Neri 150 – Rossi 150, palla al centro. Una
sola cifra, un record per entrambi. Per loro che crescono (anche se
trasversalmente non più di tanto, considerato che il rapporto tra il numero
degli under 18 e degli over 50 rimane invariato), e per noi che ci
disgreghiamo, ormai intimamente convinti di poter fare ben poco.
Ma la cifra che è degna d'analisi, a nostro avviso,
è un'altra. È vero, c'erano tutte le prerogative per
spaventarsi, eppure tutto è andato liscio agli occhi di chi ben pensa: i poliziotti
presenti (pur non potendo parlare di numeri poiché non reperibili) al Largo
saranno stati almeno una ventina, dotati di camioncino blu, tutti dritti con
l'immancabile divaricatore invisibile tra le gambe; tutti rivolti verso le
transenne che dividevano il parcheggio del largo dal viale Statuto. Dall'altra
parte, in via Ridolfi a farsi sentire, i nostri erano stati bloccati da:
transenne, stesso numero di Playmobil presenti lì davanti e camionetta annessa. Altra camionetta in via Dolfi per evitare che qualche
furbacchione facesse il giro lungo per andare a disturbare l'altro corteo; per completare il tutto con altri poliziotti lungo il viale Spartaco Lavagnini. C'erano tutte le prerogative per spaventarsi, e noi
ce l'abbiamo fatta.
Ci chiediamo se non sia ai limiti del ridicolo il fatto che
la polizia fosse presente in maniera così massiccia: d'accordo che l'Onorevole
era lì dopo l'ennesima fatica, ovvero cimentarsi nell'arduo compito di
recensire lo spettacolo di Cristicchi a proposito delle foibe, ma questo
sembrava davvero un tentativo di prevenire un colpo di stato. Ci chiediamo da
una parte come sia possibile (e giustificabile!) sostenere la spesa di una tale
mobilitazione; dall'altra se sia ragionevole che la repressione si possa
esercitare in maniera così silenziosa (chi era a comprare manufatti antichi ai
giardini della Fortezza ha continuato fino alle 19) e senza che questa
militarizzazione delle strade produca alcuno sconcerto nell'opinione pubblica,
nella consapevolezza che le spese di uno stato (e l'immaginario collettivo che
si coltiva nello stesso) possono condurre alla creazione di idee distorte su
come vada gestita una situazione di eventuale scontro tra forze politiche.
Alleghiamo un estratto dal testo di un volantino
distribuito dai gruppi Antifascisti a Roma – lo stesso giorno, con le stesse
intenzioni – e lasciamo a voi la riflessione: che la repressione si incarni in
un movimento politico organizzato o nelle istituzioni, a nostro avviso fa lo
stesso.
La repressione.
Il discorso più
comune che sentiamo ripetere in ambito di movimento è che con l’inasprirsi
delle condizioni di vita e con quella che viene chiamata “crisi” o “austerity”,
lo stato sia costretto a rispondere con la repressione, condannando gesti
legittimi che puntano alla riappropriazione di alcuni diritti basilari per la
vita di ognuno. Il fatto che queste pratiche, che si iscrivono nella classica
dialettica politica e nel confronto con le istituzioni, vengano poi condannate, ci viene
presentato come qualcosa che desta stupore. L’equazione è presto fatta:
all’aumentare dell’austerità aumentano le lotte, all’aumento delle lotte
risponde una dura quanto illegittima repressione.